Proprio ora che riconosco la mia voce non mi fa alcun effetto.
Ho imparato guardando controvento a udirla, profonda, convettiva, solo per me.
le sue foglie alle spalle, parapendio di non udienza.
La sella è una cassa di risonanza spessa, sicuramente potente, soffocata e spinta,
e la stritolo tra le gambe in modo forte e barbaro,
sudata e fredda,
me ne taglio le ciglia.
Dimentico ancora la desinenza del mio nome
e non mi devo nemmeno più sforzare nel farlo,
non ho afferro,
forse mi pare ancora un certo affondo,
ho molti calci, ben assestanti e tante spalle
con poco spazio.
Una grande e norme testa
con capelli fissi senza punte.
Un riporto enorme e pieno d'immondizia,
pronto e tremante al vaglio della luce.
Non vuole persuadersi d'essere,
regiona identità solamente
nell'avere.
(quel che percepisco è ancora intersezione piatta, mai liscia)
E come posso sentire tutto?
Mi devo fermare?
Rallentare nuoce gravemente alla salute
di batteri e virus uniti in battaglia.
Contro la pulizia,
vivaci sostenitori al massimo del raschiamento.
(i lupi da dietro le porte non se ne vanno,
tanto meglio camminare e non aguzzare le orecchie)
Però tanto vale provare.
Scendo dal moto a luogo e sprofondo nello stato.
Inutilmente sorpresa dalle larve che non mi riconoscono.
Scie liquide, iridescenti, mollezze opaline, coriandoli di cose vecchie,
pesanti
e pericolose.
Non prendo la velocità giusta.
ecco il perchè. Risolvo con un annuncio,
proposte di scambio,
con ruote e metallo,
per poi procedere sola.
Una gamba per volta,
sempre infreddolita e frettolosa.
Anche di questo materiale è fatta la mia carne.