venerdì 19 giugno 2009

BéZIER_@_galleria_moroni_serioquattro






BéZIER

Cammino lungo.Segno, è questo il tatuaggio che ho da sempre e che fortuntamente non ho mai avuto tempo né mezzi per fare, avrei completato un copia incolla.

Lungo una linea prussia, che sinuosa si muove nell' aria, ai bordi e dentro la città della mia vita non sghimbescia.Un' assonometria narrativa prigioniera dell’estetica e non ricercatrice,
incapace di essere prospettivaper natura e una scelta, poco recondita e subdola.
Questa linea non è ancora calcificata e solo ora, bianca sulla pelle,
su un asfalto che la evidenzia di blumi vedo nera,
definita in tutte le sfumature.
Calpesto bottiglie, lattine, immondizia e scontrini.
Altri segmenti, spezzati, onde quadre di auto che passano,interrompono. Complice del frullatore di percorsi attraverso la strada
Come un pennello i miei piedi punta di piume strisciano le zebre.
Sopra di me le carreggiate.
Solo adesso, capisco di non avere avuto altre epifanie.
La diagnosi è: aborti spontanei e quasi sempre ben accetti.Il segreto era solo l' attesa della condensa.
La capacità di aspettare che tutti i punti confluissero, si accordassero con l'entropia,cavalli non sellati del palio.

Non ho aspettato di sapere cavalcare a pelo,tutta presa dall'ansia di comunicare concetti che nemmeno io afferravo nell' interezza di una criniera perchè tendevo sempre all'infinito anche se rimanevo sotto la neve finta di una bolla sul mio calesse nel maneggio circolare. Senza inizio, senza fine, in una calotta di plexigals,condomina di sfere di poliestere.

Poi credo che una bambina attirata dai souvenir abbia agitato tutto lo stabile trasparente.
O forse la palazzina è solo caduta da qualche tasca e un maremoto violento e piccolo come una biglia ha messo nel frullatore le tegole del tetto, riducendo tutto il microcosmo in macerie.Un cataclisma silenzioso e profondo. La curiosità di vedere quante superfici avrei potuto imprimere con delle graffette di desideri realizzati che legassero, senza organizzare ma che mi rendessero un poco meno ansiosa e felice.
Un po' almeno.Ma mai abbastanza. E arrivare allo zen necessario per dedicarmi solo alla pressione per le setole, il loro fruscio che di getto avvolge la carta e i muri e dice.

Un po'.

Di me

Se chiudo gli occhi e mi siedo su tutti i piccoli cocci della mia vecchia boccia
sento del latte lungo le gambe, nè veloce nè lento tuttavia incontrollabile. Che non ha più nessuna intenzione di ricordare da dove viene. Vuole solo scorrere, uscire, percorrere, ben conscio di non essere vergine.
E' lui a ricordarmi che non so più che faccia hai.
Che ora che cammino sola sei diventato un effige cubista ma senza spigoli.

Le intersezioni si sovrappongono, il compasso descrive dei nasi che lambiscono delle orecchie ma non ne conosco bene i segmenti di cromosoma. Dei lobi bagnati ancheggiano lievi su delle pieghe del collo che riconosco ma che non hanno nomese non più sigle.
E forse un cruciverba di questo potrebbe essere l'enigmista per compilare la mia carta d'identità. Un documento che affiderei alle onde dentro ad una bottiglia, l'anagrafe accidentale che mi ha notato inciampandoci a vicenda.
E spererei all'istante nel tradimento del tappo, nel rimescolarsi delle lettere, per fondersi in qualcosa di nuovo, sempre fresco e turgido. Anche inquinante,ma solo in parte.

Su questa onda i pensieri si affastellano, sono punti di una parabola che finge di non conoscere i propri fuochi,perchè crede che voi perimetri le manchiate ma teme la ciclicità fedele di una sinusoide.
Sono dei gemelli, apogei e ipogei che non hanno mai i palmi delle mani coincidenti quando si giungono e allora vagano, per non diventare speculari.
Iniziano dalle punte e si diramano come radici.
Diventano una pianta acquatica, una medusa di legno che s'inventa un alfabeto.
Non è dolce per un cazzo naufragare,
nè in questo mare nè nell'oceano,
ma ne ho bisogno,
e non occorrono paragoni per afferarlo.

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