lunedì 11 maggio 2009

Pesci e Bachelite





Chiudo il rubinetto.
Ho le mani secche.
La pelle è arida e pesante, sono scaglie di tombino. Tra gli incavi delle dita, tra le macerie del cavolo che ho appena affettato. Per te e le tue sigarette che non arriveranno mai. Ma non fa piangere il cavolo, m’inventerò qualcos’altro.
I pesci di das sono quasi asciutti e il gatto li ignora, come si fa con i bocconcini madidi di umidità, lasciati in una piccola ciotola. Si è stufato di recitare la sua parte da animale e reclama la sua dignità umana, mi dà lezioni di quello che non faccio.

Prego.
Crauti,
Trofie al pesto e patate.

Bicchieri smeraldo,
freddi e lisci serpenti, verticali, nelle mani.
Oggi mezzi vuoti,
come spesso,
a quest’ora infinita che sono i pranzi con te.

E per fortuna che non c’è il sole oggi,
ingiallirebbe i lenzuoli a stendere: di un candore sterile testimone della verginità dell’uno nei confronti dell’altra.
Sei distante, sopra la montagna di ragù, su una montagna di spaghetti, sotto un mare d’aria. Un sugo senza occhi, di sicuro migliori dei miei.
Sei lontano più dei pesci nella vaschetta, palloncini di organi in sospensione in acqua. Senza peli, liberi dall’attrito che cerca di dissuadere le tue mani dal cercarmi.
La sera, vicino al cuscino
Che sa dell’assenza dei biscotti, del caldo del latte. Ma solo per poche ore.

“Passami il sale”,
ma passamelo vicino, sotto gli occhi, dentro i lembi della ferita.

Tra l’organza delle tende del baldacchino,
dei sogni dell’infanzia alla cipria
che mia nonna voleva per me.

Sei muto.
Due muti nell’acquario,
due mammiferi marini in aria distillata. Le tue sillabe restano appese ai fili colati dal soffitto nei piatti,
come le tende di bachelite, su distese polverose di mattonelle da casa del mare.
Mi proteggeranno dalle insidie della fertilizzazione dell’orchidea che cresce dal basso delle mie caviglie.
E’ un dolore, sempre più flebile, più diluito, che perde la sostanza …
Due andicappati vocali e tattili, seduti allo stesso tavolo.
Il nostro convivio si dava le arie di unica eccezione alla regola d’oro dell’imperfezione.
E invece una macchia è caduta dal ghigno della realtà ineluttabile, come una tegola, e l’ho vista come una bambina che guarda il sole precipitare.
L’ho sentita come merda di piccione.
Come se mi avessi dato una testata.

E invece non ti muovi,
meccanico,
una forchettata dopo l’altra.
Alzi il naso,
scrolli i baffi,

Sollevi le sopracciglia,
e prima di vederti riprendere il tuo monologo con la fondina
alzo occhi e sedia,
preambolo dei tacchi,
le cornee all’indietro,
e i miei capelli descrivono
la parabola che seguiranno le braccia,
che si levano dalla tovaglia,
che vanno alla bocca…
starnutisco.

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